CHUNG GA OPLA DANH VO a cura di Alessandro Rabottini | ||
dall'11 gennaio al 10 febbraio 2013 | ||
Villa Medici sala 1 e 2 | ||
Time – He flexes like a whore Time, David Bowie Non voglio concludere prima di metterti ancora una volta in guardia contro l’entusiasmo o l’invidia che ti ispira la mia fortuna: più precisamente, quella di potermela spassare in una città in cui il ricordo ti assilla indubbiamente, nonostante le radici che ti legano alla nostra patria svanita. Questa città, che non cambierei per nessun’altra al mondo, è per ciò stesso la fonte delle mie disgrazie. Poiché tutto ciò che non è questa città si equivale ai miei occhi, mi capita spesso di rimpiangere che la guerra l’abbia risparmiata e che essa non sia perita come tante altre città. Distrutta, mi avrebbe liberato della felicità di viverci, avrei potuto passare i miei giorni altrove, in un angolo remotissimo di un continente qualunque. Non le perdonerò mai di avermi legato allo spazio né di essere, per colpa sua, in qualche parte. Ciò detto, non dimentico in alcun momento che i suoi abitanti, i quattro quinti (lo notava già Chamfort), “muoiono di tristezza”. Aggiungerò ancora, per tua edificazione, che il resto, i rari privilegiati ai quali appartengo, non se ne commuovono affatto, e anzi invidiano perfino alla grande maggioranza il vantaggio che essa ha di sapere di che morire. Lettera a un amico lontano, in Storia e utopia, Emil Cioran …born out of a uterus I had nothing to do with… (nato da un utero che non ha nulla a che fare con me) Antonin Artaud interpretato da Nancy Spero
La mostra personale di Danh Vo – dal titolo Chung ga opla (Œufs au plat / Uova al tegamino) in programma a Villa Medici dal 11 gennaio al 10 febbraio 2013 – costituisce la seconda tappa del percorso espositivo a cura di Alessandro Rabottini incentrato sul tema dell’Accademia. Nato a Saigon, nel 1975, Danh Vo si è imposto in pochi anni come una delle voci più singolari nel panorama artistico internazionale in virtù del linguaggio con cui tratta i grandi temi della storia – come il colonialismo, l’imperialismo economico e culturale, il rapporto tra Occidente e Oriente e la guerra – da un punto di vista del tutto personale. Il suo lavoro fonde l’autobiografia con le grandi narrazioni, facendo collassare la divisione tra Storia e storie, tra la dimensione del vissuto individuale e l’orizzonte degli eventi mondiali. All’età di quattro anni Danh Vo, insieme alla sua famiglia, lascia il Vietnam alla volta della Danimarca, al termine di una successione di eventi storici che hanno coinvolto tanto il suo Paese di origine quanto le precedenti generazioni della sua famiglia. L’esperienza della guerra, la divisione del Paese, la conquista francese e la conversione al cattolicesimo… questi e altri traumi collettivi entrano nel lavoro di Danh Vo in una costante fusione di passato e presente, di violenza e di poesia, di distruzione e di trasformazione. In occasione della mostra a Villa Medici, Danh Vo ha realizzato una serie di interventi in collaborazione con i suoi familiari. La prima sala della mostra è organizzata secondo una stratificazione di immagini e testi che creano un corto-circuito temporale. Sui muri dello spazio espositivo l’artista ha lasciato liberi di disegnare i suoi stessi nipoti, un gruppo di otto bambini e adolescenti. A questo gesto di estrema libertà fa da contrappunto l’inserimento di alcune citazioni che disegnano un orizzonte mentale all’interno del quale il linguaggio attraversa lo spazio, il tempo e le generazioni: un brano tratto da Letter to a Faraway Friend, il capitolo introduttivo di Histoire et utopie, pubblicato in francese nel 1960 dalloscrittore rumeno Emil Cioran (1911-1995) che lasciò il suo paese per vivere la maggior parte della sua vita a Parigi; un verso del brano Time di David Bowie (1972) e una citazione di Antonin Artaud (1896-1948) ripresa a sua volta dall’artista americana Nancy Spero (1926-2009) in una delle sue opere. In tutte queste fonti possiamo riconoscere un senso di distanza e di distacco, di non appartenenza, rifiuto e nostalgia. Se una parte significativa del lavoro di Danh Vo ha a che fare con le vite di familiari appartenenti alle generazioni precedenti a lui, questa è la prima volta che l’artista include nel suo lavoro l’esistenza delle generazioni future, arricchendo in questo modo la sua riflessione sul tempo e sulla storia, tanto nella loro dimensione interiore e individuale quanto in quella collettiva. Questo intervento nello spazio – in cui coesistono libertà e violenza, innocenza e senso della fine – serve come sfondo per una serie di opere a parete che tematizzano il linguaggio e la traduzione, il movimento nel tempo e nello spazio, il viaggio e l’abbandono. Una di queste opere è 2.2.1861 (4), una versione realizzata a Roma di un lavoro in edizione illimitata: a suo padre l’artista ha chiesto di copiare a mano il testo dell’ultima lettera che il missionario cattolico Théophane Vénard – successivamente canonizzato da Papa Giovanni Paolo II nel 1988 – scrisse dal carcere a suo padre nel 1861 prima di essere condannato a morte in Vietnam, dove il proselitismo era fuorilegge. Questa lettera – l’addio di un figlio al padre in forma di una metafora floreale sull’esistenza umana – è scritta in francese e copiata dal padre di Danh Vo pur non comprendendone le parole. Quest’oscillazione tra linguaggio e senso è ulteriormente rafforzata dal fatto che il Vietnam sia stato l'unico paese asiatico che, durante il colonialismo francese, abbia convertito il proprio lessico in alfabeto latino. Tanto in quest’opera quanto nel disegno a parete la grafia diventa uno spazio visivo all’interno del quale la storia e il tempo nella vita degli individui agiscono a prescindere dalla loro comprensione e dalla loro partecipazione. Alla lettera si accompagna l’opera byebye (3), una foto appropriata di Théophane Vénard in compagnia di quattro altri preti missionari in procinto di partire per l’Asia. I temi del viaggio, del distacco, dell’abbandono della casa e dell’estraneità echeggiano in tutta la sala: nelle parole di Emil Cioran e di Artaud, nell’immagine dei missionari e nella riproduzione della foto del primo passaporto dell’artista stesso (2). Sono gli stessi temi evocati come nel grande lavoro inedito, Fabulous Muscles (5), che campeggia a parete: su una serie di buste del Museum Store della Statua della Libertà di New York laminate in foglia d’oro, il padre dell’artista ha scritto le parole Sweet Oblivion, il titolo di un’opera dell’artista Martin Wong (1946-1999), il cui lavoro pittorico costituisce una vibrante rappresentazione della vita nel Lower East Side. Tutta la sala è concepita come un affollato e bizzarro auto-ritratto di famiglia, all’interno del quale convivono tante le storie e le esistenze dei familiari dell’artista quanto esperienze artistiche ed intellettuali che lo hanno nel tempo ispirato. L’intimità di questa situazione fa da contraltare alla monumentalità del contesto che la ospita, in una fusione di quotidianità e ufficialità che il titolo amplifica. Chung ga opla, infatti, è la traduzione fonetica in caratteri occidentali dell’espressione vietnamita che indica le uova al tegamino (in francese “oeufs au plat”), a evocare l’immagine della condivisione mattutina del cibo come rito di unità. Nel Grand Salon del primo piano Danh Vo ha installato una serie di lavori che, ancora una volta, mettono in relazione Villa Medici con il tema del movimento e della trasformazione delle cose: ai piedi dei suntuosi arazzi che decorano il salone troviamo, infatti, una serie di cartoni per il trasporto dell’acqua Evian che l’artista ha raccolto per le strade e successivamente modificato attraverso la laminazione con foglia d’oro. Questi scarti del consumo – che conservano una profonda memoria dei Cardboards che Robert Rauschenberg realizzò agli inizi degli anni Settanta – sono così diventati preziosi, pur mantenendo la loro fragilità e un aspetto dimesso che contrasta con la monumentalità del contesto che li ospita. Gli arazzi realizzati negli anni Venti del Settecento su quadri di Albert Eckhout mettono in scena l’esplorazione e la scoperta di luoghi esotici, oltre che un’immagine della natura come un regno di lotta tra specie diverse, retto da una legge di forza implacabile. Alla magnificenza di queste rappresentazioni fanno da controcanto gli scarni bouquet realizzati da Danh Vo utilizzando rami di diversi alberi presenti nel giardino della Villa. La mostra di Danh Vo, Chung ga opla (Œufs au plat / Uova al tegamino), fa parte di un ciclo di tre mostre personali che completa idealmente il percorso espositivo iniziato con il Teatro delle Esposizioni #3 esvoltosi a Villa Medici nel giugno e nell’ottobre di quest’anno. Questo ciclo indaga, sul concetto di Accademia in quanto spazio simbolico dove l’idea della presunta neutralità dell’arte si sovrappone al concetto di identità nazionale, e all’interno del quale si incontrano le dimensioni della storia, della tradizione, della politica e della cultura. Ciascuno con il proprio linguaggio tutti e tre gli artisti coinvolti in questo progetto esploranola Storia dell’Arte come un luogo attraversato da molteplici forze: le ideologie politiche, gli scenari dell’economia, le narrazioni storiche dominanti e i rimossi della coscienza collettiva. La mostra segue il progetto di Patrizio Di Massimo IL TURCO LUSSURIOSO (23 novembre – 16 dicembre 2012) e anticipa la personale di Victor Man in programma per la fine di giugno 2013. ______________
Questo ciclo di mostre, infatti, esplora il concetto di Accademia nei suoi molteplici significati, intrecciando riflessioni di carattere storico, estetico e politico. Negli anni più recenti il dibattito artistico a livello internazionale si è concentrato su una serie di tematiche relative ai processi di educazione e di trasmissione del sapere, alla sopravvivenza delle ideologie del passato nel mondo presente e alla possibilità che l’arte visiva funzioni come uno spazio dove progresso e anacronismo si fondono. Il concetto di Accademia diventa allora un prisma all’interno del quale è possibile manifestare le possibilità e le contraddizioni del nostro tempo nella sua relazione con la tradizione. La figura dell’Accademia può, infatti, essere esplorata come il luogo – fisico, culturale e metaforico – dove la trasmissione di un sapere artistico specifico porta con sé una storia più complessa, fatta di una visione del mondo che, in modo più o meno esplicito, evoca i traumi della storia e i rimossi dell’ideologia.
Danh Vo (1975, Saigon, Vietnam. Vive e lavora tra Berlino e New York) è il vincitore del prestigioso Hugo Boss Prize per l’edizione del 2012. Al premio corrisponderà una mostra personale al Guggenheim di New York in programma per il marzo del 2013. Sempre nel 2013 sono in programma mostre monografiche dell’artista presso il Musée d’art moderne de la Ville de Paris e presso il Museion di Bolzano. Mostre personali sono state dedicate a Danh Vo da prestigiose istituzioni come la Renaissance Society di Chicago, la National Gallery di Copenhagen, la Kunsthaus Bregenz (tutte nel 2012); la Kunsthalle Fridericianum di Kassel (2011); la Kunsthalle di Basilea (2009) e lo Stedelijk Museum di Amsterdam (2008). Si ringraziano la galleria Chantal Crousel, Parigi, e la galleria Daniel Buchholz, Berlino e Colonia.
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Link: www.villamedici.it | ||